Stiamo organizzando una giornata per il 15 dicembre a Bologna che ci serva come ricomposizione di frammenti sparsi di critica e pratica del movimento transfemminista lgbtiqueer.
La proposta di questo incontro emerge da varie spinte e contributi, in particolare dalla giornata del 5 maggio a bologna queering occupy! e dagli incontri milanesi che l’avevano preceduta; dalle reti attorno ai queer di altéra e da quello che è stato il fondamentale laboratorio di villa fiorelli; dal sommovimento nazio-anale creatosi in rete più di recente e da vari incontri di questi mesi su pinkwashing, omonazionalismo, lavoro sessuale, postporno ecc.
Una tappa intermedia per stringere reti e comunanza, per aprire percorsi di lotta, di approfondimento ulteriore…
Il documento che segue vuole indicare alcuni nodi aperti, e sicuramente non è in grado di nominare la molteplicità dei discorsi e dei percorsi esistenti. E’ un working paper che ci serve a dare un’idea di alcune delle cose di cui vorremmo discutere il 15.
Una giornata di co-spirazione lesbica, frocia, trans e femminista nella crisi per un sommovimento trans-nazio-anale di singolarità e gruppi queer
Bologna_15 dicembre 2012_dalle 10 alle 18 @ Bartleby, via San Petronio Vecchio 30
La crisi che investe le nostre vite si rivela sempre di più una ristrutturazione globale del capitalismo che investe anche la sovranità statuale, la rappresentanza e le forme tradizionali della politica, mostrando definitivamente l’inefficacia di qualunque velleità di lobbismo integrazionista lgbt o di emancipazionismo femminile.
In questa situazione, sentiamo il bisogno di sviluppare pratiche di resistenza e di lotta e di creare reti e spazi comuni a partire dalla materialità delle vite e delle esperienze trans, femministe e queer, dalla complessità e dalla molteplicità delle nostre collocazioni di genere e sessuali, e da come queste si intersecano con le dinamiche della produzione capitalista e con la costruzione di un “noi” bianco in rapporto agli “altri”, neri, migranti.
Sono molti gli elementi che ci spingono a credere che nelle lotte froce, trans e femministe uno sguardo sulla crisi sia indispensabile e che, specularmente, nelle lotte sociali contro il debito e per il diritto al reddito, gli aspetti biopolitici e sessuati delle dinamiche economiche debbano diventare centrali.
Un tempo si parlava di produzione e riproduzione. Ma nel postfordismo il lavoro affettivo – inteso non solo come categoria che comprende il lavoro di cura, di riproduzione e tutti i servizi alla persona ma in generale come capacità relazionale, di costruire reti e comunità – ha assunto un ruolo paradigmatico in quanto componente di tutti i processi lavorativi. Non sono più le nostre braccia, i nostri cervelli e il nostro tempo ad essere messi a lavoro, ma la nostra intera soggettività. In questo contesto, mettere a punto pratiche di resistenza e di lotta che sottraggano al capitale le nostre eccedenze soggettive e le restituiscano alla cooperazione sociale non è scontato e richiede uno sforzo collettivo di analisi e di invenzione.
Inoltre, la messa al lavoro (e a valore) della soggettività, dell’affettività e della capacità relazionale intensifica lo sfruttamento e diventa uno strumento per cooptarci più profondamente alla “causa” della produzione e alle logiche del mercato del lavoro.
Il blablabla sul “fattore donna” come volano della crescita e dello sviluppo e sul “diversity management” come strumento di inclusione sociale sono esempi di come ci si serva di noi per legittimare il sistema, concedendo briciole e lusinghe a qualcuna solo per poter schiacciare sempre più tutte/i nel ricatto della precarietà e del debito.
L’ansia generata dalla precarietà è in primo luogo un’ansia per la propria stessa sussistenza e per il deteriorarsi della qualità della propria vita, in termini non solo economici. In parte, però, la possiamo leggere anche come “sintomo di una paura, da parte di uomini e donne eterosessuali, diperdere il ruolo sessuale e di genere che l’economia politica garantiva loro: potrò mantenere una famiglia? quando potrò sposarmi e fare un bambino?” (Loiacono, in corso di pubblicazione). In altre parole, “gran parte di ciò che il lavoratore e la lavoratrice fordista stanno perdendo ha a che fare con quel compromesso tra capitalismo e istituzioni eteropatriarcali nella cornice dello stato-nazione”, dal quale come queer siamo stat* – almeno fino ad un certo momento – esclus* per definizione”.
Come queer, avevamo imparato da tempo l’arte del fallimento (Halberstam 2011), e ben prima che la precarizzazione del lavoro diventasse generalizzata avevamo sviluppato un diversa concezione del tempo di vita, non basata sulla traiettoria obbligata lavoro-matrimonio-figli, elaborando un diverso rapporto con il tempo, non più proiettato nel futuro ma centrato sul presente. In qualche modo, insomma, “eravamo già in un altro universo di senso, entro cui ‘tutti’ vengono ora sempre più ricacciati”.
Non solo dunque le soggettività queer hanno molto da dare in una discussione sulla crisi, ma questa situazione offre a tutte e tutti un’occasione per mettere in questione e ripensare le forme tradizionali di sessualità, relazione, affettività, attivismo e etica del lavoro.
A partire dall’incontro di Milano “Manovre ingen(d)erose“, attraverso l’appuntamento bolognese “Queering occupy!” e dopo che, negli ultimi mesi, si sono moltiplicati gli intrecci, i dibatti e le lotte condivise fra numerosi gruppi queer e singol@ in giro per l’Italia, come è accaduto recentemente con l’elaborazione e la diffusione del comunicato del “Sommovimento spontaneo nazio-anale di singolarità e gruppi queer”, sentiamo sempre di più l’esigenza di incontrarci face-to-face per analizzare a fondo il nesso lavoro-affetto-sessualità-identità, partendo da una prospettiva che consideri i binarismi come dispositivi che sostengono l’eterosessualità normativa e stabilizzano l’attuale organizzazione sociale lungo le linee della razza e del sesso.
Proponiamo di vederci a Bologna, il 15 dicembre, per una giornata di cospirazione puta-lesbo-trans-femminista-queer a partire da alcuni nodi che proponiamo alla discussione e che possono essere ampliati, ripensati, integrati per produrre, nel prossimo futuro, ulteriori momenti di approfondimento, percorsi multipli e pratiche virali di lotta:
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organizzazione: inventare forme di attivismo che possano coesistere con le vite precarie
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lavoro riproduttivo, affettivo, sessuale, biopolitico, del genere
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autoinchiesta e sciopero dai generi
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reddito, welfare dal basso, neomutualismo
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smontare l’omonazionalismo
Organizzazione
Sentiamo forte l’esigenza di ripartire proprio da questa parola rimossa e problematica: si tratta di (ri)pensare a forme di organizzazione che siano all’altezza della complessità delle vite queer e precarie, che tengano conto della irriducibilità di ognun* a un soggetto collettivo verticale/gerarchico, che possano includere collettivi, singol* attivist*, studios*, laboratori di sperimentazione politica; di inventare e valorizzare forme della politica che possano coesistere con le vite precarie, costruendo solidarietà, trasversalità e viralità delle lotte senza esigere militanza sacrificale, che siano in grado di potenziare l’agire di ognuna senza ridurlo a uniformità. Vorremmo riflettere su una politica fatta di dis/attaccamenti appassionati, che ricomponga la frammentazione senza pretesa di produrre soggetti molari unitari, che consenta di entrare, uscire, alternare il coinvolgimento, senza creare paranoia, identità ideologiche e passioni tristi.
Desideriamo partire dall’esplorazione di genealogie condivise di lotte biopolitiche queer e femministe: le lotte queer e il modello Act-up! che hanno costruito forme di rete mutualistica e di attivismo; le lotte del femminismo radicale degli anni Settanta, che hanno creato conflitto e costruito consultori, cliniche autogestite e rivendicato reddito.
Perché la posta in gioco è organizzare la “vita” stessa, non (ri)produrre strutture politiche organizzate di militanti organizzati. Affinché l’auto-organizzazione diventi realmente una forma di autogoverno non statuale, non mimetica della rappresentanza.
Lavoro riproduttivo, affettivo, sessuale, biopolitico, del genere.
Una lettura materialista della sessualità come dispositivo di potere deve “andare oltre le persone identificabili come LGBTQ per confrontarsi con la specificità storica dell’investimento del capitale nelle formazioni della sessualità. La produzione di identità sessuali attraverso le quali costellazioni imprevedibili di desiderio, sapere e pratiche diventano concrete dentro a ben delimitati modelli di identità sessuale, è legata al modo in cui il capitale produce soggetti funzionali ai propri bisogni” (Wesling 2012, p. 107, trad. nostra).
Bisogna prendere seriamente in considerazione la nozione di affetto in relazione al lavoro, “bisogna distinguere il lavoro affettivamente necessario dal lavoro socialmente necessario, vale a dire dal minimo lavoro necessario al lavoratore/lavoratrice per riprodurre se stesso/a”. Nella formulazione di Wesling, il “lavoro affettivamente necessario” si riferisce a quella miriade di attività sociali che non rientrano nel lavoro produttivo ma vanno oltre la sussistenza e la riproduzione, tutte quelle attività che hanno lo scopo di dare al corpo piacere, benessere, soddisfazione del desiderio, e che dovremmo riconoscere come lavoro. Ad esempio, lo sono “le performance quotidiane attraverso le quali i corpi diventano socialmente leggibili come ‘genderizzati’ (che siano codificati come queer o etero)”. “La riproduzione obbligatoria del genere come performance va intesa come una forma di lavoro che produce valore, sia materiale che sociale” e “questo lavoro è valorizzabile nella misura in cui il soggetto genderizzato si sottomette ‘liberamente’ all’imperativo di questo lavoro continuo e ne considera il prodotto – l’identità di genere – non come una imposizione dall’esterno ma come qualcosa che ha origine nella sua interiorità”. “L’esempio più ovvio di lavoro del genere – continua Wesling – è il lavoro femminile nelle relazioni affettive: fare figli, crescerli, accudire gli anziani, tutto il lavoro emozionale di mantenimento delle relazioni è una forma di lavoro non retribuito e nemmeno percepito come tale che però produce valore per il capitale. Ma queste sono solo le forme più ovvie del lavoro intrinseco a tutte le identità di genere e sessuali. (…) È proprio l’elemento affettivo che fa sì che queste performance sembrino spontanee e non vengano riconosciute come forme interiorizzate di assoggettamento che rendono leggibile ogni individuo come soggetto sociale” (ivi, p. 108-109).
Sono molte le donne, le lesbiche, le trans e le froce che vivono nella crisi uno stridente paradosso: molto spesso discriminate e invisibili, quando non sono estromesse dal mercato del lavoro, si ritrovano a essere ricercate e sfruttate nelle nuove forme del lavoro biopolitico proprio in quanto donne e froce. Veniamo as-soggettate e ci as-soggettiamo perché si dice che siamo più creative, più comunicative, più disposte all’ascolto e alla mediazione, che sappiamo presentarci meglio e sorridiamo di più.
In quanto gay e lesbiche, si presuppone che non abbiamo legami familiari che ci distolgano dalla dedizione al lavoro, mentre ci viene richiesto di estrarre plusvalore dalle nostre reti di relazioni per poi regalarlo al capitale.
In quanto donne veniamo trasfigurate (sia dalle pelose retoriche pari opportuniste di governo sia dal neoperbenismo femminile alla “Se non ora quando”) in icone sacrificali di madri e mogli in grado di conciliare eroicamente produzione e riproduzione, e contemporaneamente ci viene scaricato integralmente sulle spalle il peso dello smantellamento del welfare, che porta con sé un inasprimento della gerarchizzazione tra donne native e migranti nel lavoro di cura.
In quanto trans mtf siamo ancora estromesse/i dal lavoro o incluse/i in ruoli ipersessualizzati.
Ma se è vero che il lavoro affettivo negli ultimi venticinque anni ha assunto un ruolo paradigmatico in quanto componente di tutti i processi lavorativi nel postfordismo; e se è vero che il lavoro affettivo è stato svolto gratuitamente per secoli dalle donne, e oggi viene svolto in condizioni non solo precarie ma spesso anche servili dalle donne migranti, allora diventa sempre più urgente l’irruzione non solo di una parola frocia e femminista nel dibattito sulle trasformazioni del lavoro, ma anche e soprattutto di una pratica frocia e femminista nelle lotte ‘contro’ il lavoro.
Autoinchiesta e sciopero dai generi.
Negli scioperi generalizzati di quest’ultimo anno, soprattutto in Spagna, abbiamo sentito risuonare la forza dello “sciopero dai generi”. Ci siamo chiest* cosa accadrebbe se, dentro ai mille rivoli della precarietà diffusa in cui è frammentato il lavoro, dentro al lavoro sessuale, al lavoro di cura retribuito e non, praticassimo uno sciopero dai generi, cioè uno sciopero da tutte le aspettative, ripetizioni, atti, ruoli con cui quotidianamente (ri)produciamo l’ordine costituito dei generi e con esso l’ordine costituito tout court.
Come suggeriva il “Manifesto per l’insurrezione puta-lesbo-trans-femminista” diffuso nel 2010 da numerosi collettivi spagnoli, infatti, è arrivato il momento di interrogarci sul fatto che se tutti e tutte nella vita di ogni giorno produciamo continuamente genere, sarebbe meglio che producessimo libertà.
Lo sciopero dai generi non è solo un momento puntuale e simultaneo di sottrazione, come lo sciopero tradizionale. È piuttosto un processo di auto-inchiesta su come le nostre identità e soggettività vengono catturate e svuotate dai processi di valorizzazione capitalistica, e un modo per rivendicare un valore queer eccedente il concetto di valore capitalistico. Da qui la rivendicazione di un reddito universale incondizionato come reddito di autodeterminazione.
Reddito, welfare dal basso, neomutualismo.
Mai come ora è necessario rivendicare, oltre ai diritti civili e alla legittimità delle nostre relazioni affettive nelle loro molteplici forme, diritti sociali e reddito di autodeterminazione per tutt*. Reddito per sottrarsi alla dipendenza dalla famiglia, al ricatto della precarietà che ci impedisce di vivere apertamente la nostra sessualità, o alla dedizione riconoscente allo spirito gay friendly dell’impresa che eventualmente ci dà lavoro.
Mai come oggi è necessario riappropriarci e redistribuire la ricchezza culturale, sociale e materiale che tutt* produciamo, sottraendola ai meccanismi di mercato e alle politiche di diversity management che mettono a valore le nostre differenze, riducendole a stereotipi, stili di vita, nicchie di consumo, svuotandole della loro favolosità.
Nelle nostre genealogie ci sono state forme di organizzazione bio-politica che non si consideravano distinte dalla “vita” e che sapevano e hanno costruito potenti esperienze di welfare dal basso: pensiamo alle pratiche di azione diretta di Act-up!, che nella lotte contro le Big Pharma avevano istituito cellule autogestite di assistenza e ricerca su HIV/AIDS che lavoravano efficacemente in rete transnazionale, in un momento storico in cui né l’AIDS né le sue vittime interessavano ai governi; pensiamo alle pratiche del femminismo radicale degli anni Settanta, che hanno istituito cliniche per l’aborto “illegali”, consultori autogestiti e asili nido nelle fabbriche per imporre una riorganizzazione dei tempi di lavoro,
In un momento in cui il ricatto del debito e i tagli alla spesa pubblica incidono anche sui consultori per la salute sessuale e sui consultori trans, e in generale sulle scarse risorse pubbliche dedicate a un welfare non generalista, è necessario combattere la retorica dell’austerity e il ricatto del debito come senso di colpa, ma anche costruire reti queer incarnate nella materialità di bisogni che non erano certo al centro del welfare universalistico modellato sulla famiglia etero.
Smontare l’omonazionalismo verso l’intersezionalità delle lotte.
Nel caso italiano il potere non può riappropriarsi positivamente del discorso LGBT, poiché praticamente nessun diritto è stato giuridicamente acquisito. Apparentemente, quindi, la categoria di omonazionalismo non può essere applicata.
Tuttavia, tutta la vicenda della fantomatica legge contro l’omofobia, oltre ad oscurare le vite e le politiche queer dietro a una richiesta di inasprimento delle pene per i reati d’odio, è diventata strumento di strategie omonazionaliste e di pinkwashing. In analogia con quanto accaduto sulla questione della violenza contro le donne, che è stata oggetto nel 2008 di strumentalizzazioni razziste respinte politicamente dal movimento lesbo femminista, il discorso di condanna della violenza omofobica, spesso ridotto a condanna generica della violenza, ha consentito alla totalità delle forze politiche, compresi partiti di destra e gruppi neofascisti, di essere solidali e di appropriarsi della vittimizzazione omosessuale allo scopo di legittimarsi come “democratiche”.
La ministra Fornero – non casualmente la stessa degli spaghetti al pomodoro e dell’accusa ai giovani di essere troppo choosy – annuncia una campagna nazionale contro l’omofobia a seguito del suicidio di un ragazzo a Roma, dicendo che è una questione di civiltà approvare al più presto una legge contro l’omofobia. Questa idea civiltà, di progresso e di modernità che si identificano con il Nord, questa retorica dello “stare al passo con l’Europa” è la stessa che sostiene le peggiori “riforme” neoliberiste sostenute dal governo Monti, che non a caso ha indorato la pillola proprio con gli incentivi all’assunzione delle giovani donne.
Inoltre, accanto all’estendersi del pinkwashing israeliano sulla comunità lgbt, tattiche di pinkwashing si stanno diffondendo anche nel nostro paese.
E’ infatti in corso anche in Italia il tentativo di arruolamento di donne, gay e lesbiche e delle loro battaglie all’interno di un discorso nazionale/lista. In questa cornice la rivendicazione di diritti o di visibilità viene predicata sulla base di una rivendicazione di cittadinanza e di italianità. La disparità di trattamento de* cittadin* omosessuali e de* cittadin* eterosessuali andrebbe contro il principio di uguaglianza su cui si basa la cittadinanza come nozione politico-giuridica. Ma in un momento in cui, in Italia come in tutta la “fortezza Europa”, la cittadinanza è diventata strumento di esclusione/inclusione differenziale dei e delle migranti, questa rivendicazione di cittadinanza è una rivendicazione di un privilegio, e implicitamente anche una rivendicazione di bianchezza.
La bianchezza è inestricabilmente legata alla classe: come i migranti possono accedere a qualche briciola di bianchezza rivendicando per sé l’immagine del fatomatico immigrato-che-lavora, gay e lesbiche “italiani doc” possono rivendicare il loro posto nella nazione in nome della loro performance di rispettabilità, fatta di dedizione al consumo e al lavoro.
Riferimenti
Judith Halberstam (2011), The Queer Art of Failure, Durham, Duke University Press (tr. it. dell’introduzione in Maschilità senza uomini. Saggi scelti, a cura di Federica Frabetti, Pisa, ETS, 2010, pp. 155-73)
Cristian Lo Iacono (in press), «Flexiqueerity». Per la critica dell’economia politica degli affetti queer
Meg Wesling (2012), “Queer Value”, GLQ: A Journal of Lesbian and Gay Studies, 18(1):107-125