Il Sommovimento NazioAnale scende in piazza del Popolo a Roma il 5 marzo 2016.
Tra le aule e i corridoi del Senato si è agitata negli ultimi mesi una estenuante (e grottesca) discussione a colpi di dichiarazioni omofobe, risse e defezioni, per smembrare un testo di legge al ribasso già incapace di estendere diritti minimi a una fetta estesa e finora invisibile di popolazione. In questo gioco all’ultimo articolo (e ben pochi sono rimasti integri nell’ultima versione del maxiemendamento su cui è stata apposta la fiducia) la battaglia per i diritti e l’autodeterminazione delle persone lgbti è sembrata schiacciata sul tavolo di concertazione di uno stantio scambismo politico, in cui per una manciata di voti si baratta la vita di centinaia, migliaia di persone.
Sul trono indiscusso del privilegio siede ancora la famiglia tradizionale, sostenuta dalle forze reazionarie, neofasciste, neofondamentaliste cattoliche che attraversano il paese. Il resto della classe politica istituzionale è sembrata incapace di nominare, riconoscere e includere nell’orizzonte del diritto qualunque altra forma di legame affettivo, relazionale, s-familiare, realtà di fatto per migliaia di persone ogni giorno.
L’apertura di uno spazio di discussione che rimettesse al centro il tema dei diritti, ha significato anche scoperchiare il vaso di pandora: dal palcoscenico mediatico a quello istituzionale, rigurgiti omo-lesbo-trans-fobici, razzisti e sessisti hanno potuto imperversare, dove un limite qualunque al dibattito pubblico è sembrato un ricordo lontano.
Coppie dello “stesso sesso”, vincoli di fedeltà, pensione e doveri reciproci ma soprattutto genitorialità, coadozione (ovvero la possibilità di adottare il figlio/la figlia del/la partner), le forme possibili della procreazione: alla faccia di una fantomatica “civiltà” (concetto già ampiamente criticabile perché pone al centro il confronto con gli Altri “incivili” attraverso retoriche razziste e omonazionaliste), a sfogarsi sono state parole di violenza, che intorno al nodo della “natura” e della gestione dei corpi determinano nuove e più insidiose forme di esclusione e controllo.
Abbiamo bisogno di diritti che supportino le molteplici forme relazionali che viviamo. I diritti residuali proposti dal ddl Cirinnà sanciscono e formalizzano uno specifico modello relazionale basato sulla coppia ma non supportano quelle “altre intimità” al di fuori della coppia, quelle S-famiglie, quelle reti e comunità affettive che costruiamo e inventiamo ogni giorno. A fronte delle briciole che ci vengono proposte, ci rifiutiamo di fare dei nostri corpi la merce di scambio di giochi politici, accordi e sotterfugi: quei compromessi non parlano di qualche sterile aggiustamento, ma determinano precise conseguenze sulle nostre vite. Non ci interessa essere “incluse”, pretendiamo che venga sanata colmata una colpevole e decennale lacuna di diritti.
Siamo ben consce che i diritti “civili” possono ben poco slegati da diritti sociali ed economici. Servizi carenti o inesistenti, lo smantellamento di quel che resta di un welfare familista e lavorista che comunque non ha mai contemplato i nostri bisogni e le nostre forme di vita, la generale precarizzazione delle condizioni esistenziali e lavorative sancita dall’accetta di progressive riforme –non ultimo il Jobs Act- costringono tutt* noi lesbiche, gay, trans*, frocie, queer, a sottostare a un ricatto perenne in cui i margini per l’autodeterminazione delle nostre vite e delle nostre relazioni si assottigliano fino quasi a scomparire.
Davanti agli scampoli di una legge partita già compromessa, non possiamo che constatare l’ufficializzazione di una discriminazione che essa determina: pur essendo un passaggio storico nel vuoto legislativo italiano, i diritti concessi si riferiscono ad un istituto specifico per coppie omosessuali e trans*, scrivendo nero su bianco un’inferiorizzazione giuridica che ribadisce la supremazia incontrastata della famiglia tradizionale.
Come gay, lesbiche, trans, queer, femministe, pretendiamo che siano garantite reali forme di autodeterminazione, non solo rispetto ai nostri legami affettivi ma anche rispetto alle scelte riproduttive. Questo non può che avvenire slegato dai ricatti del lavoro e della precarietà, per cui pretendiamo un reddito di autodeterminazione che ci consenta di rendere effettive le nostre scelte. Lo chiediamo non in nome di una ipotetica “civiltà” in nome di una giustizia sociale per tutt*, e della vivibilità delle nostre vite.
Altrochè Cirinnà! Ci riprendiamo tutto!