Da molti anni, le caratteristiche del lavoro domestico e di cura – ovvero, la disponibilità permanente h24 per 7 giorni su 7, la dipendenza dalle necessità e urgenze altrui, la totale versatilità in assenza di un mansionario chiaramente pattuito, la completa mancanza di tutele e regolarità, l’assoluta incongruenza tra ore di lavoro e remunerazione –
sono diventate comuni a tutto il lavoro, che sia riconosciuto e retribuito come tale, o meno.
Inoltre, un’altra caratteristica del lavoro di cura e domestico tradizionalmente svolto dalle donne si sta generalizzando: la gratuità e il mancato riconoscimento. Moltissime delle prestazioni che svolgiamo producono profitto ma non sono riconosciute come lavoro e quindi pagate. Ci dicono che molto di ciò che facciamo non è retribuito perché non è nient’altro che un’opportunità per noi di far vedere chi siamo (per realizzarci, per trovare forse un giorno un lavoro retribuito, per essere assunti, per mantenere il nostro lavoro, per acquisire visibilità), esattamente come da sempre alle donne viene detto che prendersi cura degli altri è un modo (il modo) di esprimere se stesse.
Inoltre ormai quella bravura ritenuta tipicamente “femminile” nel costruire reti, nel prendersi cura dell’altro o nel sedurlo è una delle competenze più gettonate dal mercato e viene richiesta a tutti e tutte, sebbene con meccanismi diversi per mobilitare le diverse identificazioni di genere: non si tratta più solo di “saper fare” qualcosa, ma di mettere a profitto anche tutto quello che fa parte del “vivere”, le passioni, le idee, la capacità di relazionarsi, l’affettività, la nostra soggettività, il nostro modo di presentarci nel mondo, di caratterizzarci. Qualunque esso sia. Per questo possiamo parlare di messa al lavoro dei generi, di tutti i generi (che siano codificati come etero o queer).
Produciamo continuamente genere: sia che lo consideriamo “naturalmente” connesso a un dato sesso, sia che scegliamo il nostro genere, spesso percepiamo come spontaneo, o vantaggioso, quello che è un obbligo socialmente imposto osituazionalmente conveniente. Performare un genere riconoscibile è un lavoro incessante e quotidiano: provate a fare un giro per strada con un genere “ambiguo” e scoprirete la violenza di questa imposizione.
Il genere è un mezzo di produzione sociale: tutti e tutte facciamo il nostro debutto in società incorporando un genere e tutte le prestazioni sociali, lavorative o no, passano per caratteristiche di genere che vengono messe in produzione in maniera specifica. Le nostre performance di genere tendono ad essere messe a profitto sempre: quando lo
costruiamo attraverso il consumo (dal “trucco e parrucco”, al “life style”); quando lo performiamo condividendo (ad es. sui social network) informazioni su di noi, sui nostri gusti, sulla nostra personalità; quando le nostre (presunte) caratteristiche di genere vengono messe a lavoro in azienda, in cantiere, dietro al bancone, all’università.
Naturalmente l’esempio più eclatante resta la messa a lavoro della femminilità normativa attraverso la naturalizzazione del suo legame con il lavoro di cura e domestico che ancora sostiene la divisione del lavoro tra i due generi socialmente riconosciuti: se è vero che alcuni cambiamenti sono avvenuti nell’ambito della cura dei figli, molto meno invece nell’ambito del lavoro domestico vero e proprio. Le donne che scelgono, o devono cercare un lavoro retribuito, riconosciuto come tale, devono accollarsi sia il lavoro esterno remunerato sia quello domestico e relazionale non remunerato. L’effetto finale è che in Italia le ore complessive di lavoro familiare sono svolte ancora oggi per il 71,9% dalle donne, che quindi, lavorano, in media, un’ora e un quarto al giorno in più rispetto agli uomini.
Nella retorica della crisi, veniamo trasfigurate in icone sacrificali di madri eroiche e docili mogli in grado di conciliare produzione e riproduzione, per poi scaricare integralmente sulle nostre spalle il peso dello smantellamento del welfare, dimissionarci se rimaniamo incinte e appesantire la gerarchizzazione tra donne native e migranti nel lavoro di cura.
Ma i ruoli di genere non sono solo due, altri ne sono emersi e forse il primo ad accorgersene è stato proprio il capitale. Molte donne, lesbiche, trans e froce nella crisi sembrano trovarsi in uno stridente paradosso: molto spesso discriminate e invisibili, quando non estromesse dal mercato del lavoro, si ritrovano a essere ricercate e sfruttate proprio in quanto donne, o froce. A dimostrazione che precarietà, meritocrazia e criteri di selezione, oltre a essere generalizzati, sono anche e soprattutto genderizzati.
Veniamo as-soggettate e ci as-soggettiamo perché si dice che siamo più creative, più comunicative, più disposte all’ascolto e alla mediazione, che sappiamo presentarci meglio e sorridiamo di più, ma anche per bisogno di riconoscimento sociale. In quanto gay, lesbiche, transessuali, queer, persone dallo status relazionale inclassificabile sotto qualsiasi modello di relazione assimilabile a quello di “famiglia” comunque intesa, si presuppone che non abbiamo legami che ci distolgano dalla dedizione al lavoro, mentre ci viene richiesto di estrarre plusvalore dalle nostre reti di relazioni per poi regalarlo all’azienda. In quanto trans siamo ancora estromesse/i dal lavoro o incluse/i in ruoli ipersessualizzati.
Sappiamo bene, per averlo sperimentato sulla nostra pelle, che il blablabla sul «fattore donna» come volano della crescita e dello sviluppo e sul “diversity management” come strumento di inclusione sociale, non porta affatto un maggiore riconoscimento delle differenze, ma soltanto un’intensificazione dello sfruttamento e dell’impoverimento
per il 99 per cento di donne e queer.
Piuttosto, il diversity management rappresenta la possibilità per le imprese di ottenere un vantaggio competitivo attraverso la valorizzazione “commerciale” delle diversità individuali, garantendosi un ampliamento della clientela e raggiungendo aumenti delle vendite fino al 700%. Una pratica che si sta concretizzando, anche nel contesto italiano.
D’altra parte in un paese come l’Italia, in cui l’eterosessismo è vigilato da una vasta schiera di sentinelle, il diversity management è uno strumento particolarmente insidioso di fidelizzazione e sfruttamento: dovremmo essere riconoscenti e fedeli all’azienda che ci sfrutta perché ci “concede” graziosamente qualcuno dei diritti che uno stato omofobo non ci riconosce guadagnandosi anche un’immagine “friendly” sulla nostra pelle.
Ciò non toglie, ovviamente, che omosessuali, lesbiche e bisessuali continuino a subire discriminazioni sul lavoro più degli eterosessuali (22,1% contro il 12,7%) e che siamo costretti e costrette a dover gestire anche la crisi del maschio tradizionale, la cui perdita di centralità sociale e produttiva spesso si traduce in un aumento della violenza di genere e dell’aggressività omo-lesbo-transfobica.
E’ anche per tutti questi motivi che sentiamo battere sempre più forte il tempo dello sciopero sociale e di uno sciopero da tutti e di tutti i generi. Cosa accadrebbe, se dentro ai mille rivoli della precarietà diffusa in cui è frammentato il lavoro e il non lavoro, dentro al lavoro sessuale, affettivo, al lavoro di cura retribuito e non, praticassimo uno sciopero da tutte le aspettative, ripetizioni, atti, ruoli con cui quotidianamente (ri)produciamo l’ordine costituito dei generi, e con esso l’ordine costituito tout court?
Una reale sperimentazione libera del proprio genere/i, del proprio corpo e dei propri piaceri può passare solo dalla de-gener-azione del lavoro sociale e dalla liberazione del nostro tempo di vita: è anche per questo che reclamiamo un reddito di base incondizionato, perchè diventi un reddito per l’autodeterminazione!
#REDDITODIAUTODETERMINAZIONE #WELFARE EUROPEO