Report CONFINI-PINKWASHING-OMONAZIONALISMO

Campeggia Queer – Report della giornata di giovedì 1 settembre 2016

CONFINI-PINKWASHING-OMONAZIONALISMO

Vogliamo continuare a riflettere su pratiche di autorganizzazione che combattano la strumentalizzazione della violenza di genere e dell’omolesbotransfobia in chiave razzista e islamofoba, la corporativizzazione e commercializzazione delle politiche froce e la celebrazione omonazionalista della “civiltà” di un’Europa che si vanta di promuovere l’emancipazione femminile e il rispetto delle minoranze sessuali ma poi pratica deportazioni e respingimenti di massa. Vogliamo organizzarci per costruire un movimento che metta al centro la lotta contro le frontiere tra i territori e i generi.

Per ora la giornata prevede: un momento sul pinkwashing di Israele; un momento sulle esperienze e sulla costruzione di pratiche di lotta che possiamo mettere in campo contro i confini in maniera intersezionale; una discussione su pinkwashing aziendale e del diversity management e su pinkwashing istituzionale (vedi Renzi e PD dopo la Cirinnà o dinamiche dei Pride).

Per finire, giochi da spiaggia: froce senza frontiere.

Omonazionalismo, Froce terrone, austerity

In questo workshop abbiamo tentato di ragionare collettivamente sui nessi tra omonazionalismo, costruzione della nazione e “civiltà”. Per farlo siamo partite dall’analisi di alcune campagne: “Svegliati Italia” – lanciata in occasione della discussione della legge Cirinnà sulle unioni civili – e la campagna “civiltà prodotto tipico italiano” – uscita in occasione dell’Europride tenutosi a Roma nel 2011. In queste due campagne, a nostro avviso paradigmatiche dell’omonazionalismo “all’italiana”, sono state mobilitate retoricamente la “civiltà” e l’appello a “stare al passo con l’Europa” (garantendo anche in Italia lo stesso quadro legislativo che c’è in altri paesi del nord Europa). Si tratta non a caso degli stessi discorsi e delle stesse argomentazioni utilizzati nel discorso pubblico per giustificare le politiche di austerità in Italia, un paese del Sud dell’Europa che – ci è stato detto – deve rimettersi al passo con il Nord. Abbiamo ricordato ad esempio le parole della ministra Fornero, che un po’ di tempo fa, ad un gruppo di attiviste precarie che reclamavano reddito ha risposto che l’Italia è un paese “ricco di contraddizioni”, dove c’è “il sole per nove mesi all’anno”, e se venisse riconosciuto un reddito di base “la gente se ne starebbe tutto il tempo seduta a mangiare pasta al pomodoro”. Questi discorsi hanno anche assunto una esplicita declinazione di genere ad esempio nella retorica pariopportunista di SNOQ (Se Non Ora Quando), che ipostatizza la figura della “donna che fa mille sacrifici per rigenerare la nazione” e rimetterla al passo. Tutti questi discorsi sono sottesi da un discorso coloniale: da una parte del nord dell’Italia nei confronti del sud, dall’altra del nord dell’europa nei confronti dell’Italia intesa come sud dell’europa.

Fatte queste considerazioni, il tentativo del workshop è stato quello di iniziare a gettare le basi per costruire un posizionamento che definiamo terrone dal quale formulare una critica a questo complesso di discorsi. Un posizionamento meridiano che parta dalle nostre vite più o meno al sud, un sud ampiamente inteso, che parta dalla nostra marginalità – piuttosto che dalla nostra centralità – rispetto alle retoriche e ai discorsi che abbiamo citato. Un posizionamento che rifiuti l’emancipazione attraverso il lavoro – punto nodale dell’ingiunzione a “nordizzarsi” – e riesca a leggere i punti in comune con altre soggettività marginalizzate, in questo modo andando oltre la mera solidarietà, pur al contempo riconoscendo il nostro privilegio di soggette in maggioranza bianche e cittadine. Un esempio di questo potrebbe essere, come ha detto qualcuna, quello di considerare le migrazioni verso il nord – dell’Italia o dell’Europa – di molte di noi come punto di partenza per leggere il migrare come punto comune dentro a condizioni materiali e di potere molto diverse. Tuttavia alcune hanno notato che è necessario non cadere nella tentazione di lanciarsi in una ricerca di analogie che può portarci ad un discorso neutralizzante e problematico che occulta i nostri privilegi. Detto questo, è importante cercare di sottolineare bisogni materiali comuni a soggettività – almeno in parte – diverse, come ad esempio casa, reddito ecc. per creare azione politica comune: la divisione è funzionale più al potere che alle lotte.

Più in generale il punto di questo ragionamento non è quello di costruire una soggettività “frocia terrona”. Piuttosto, in un contesto in cui sventolano bandiere tricolori e noi soggettività LGBT veniamo strumentalizzate per criminalizzare e marginalizzare migranti, musulmani e soggettività razzializzate, costruire un posizionamento terrone può rappresentare uno strumento per decentrare e destabilizzare l’ordine della nazione, dell’Europa, del progresso e della civiltà e per mettere in campo lotte comuni in modo situato. Una questione fondamentale per noi è infatti quella di costruire lotte comuni, senza annullare le differenze (sempre guardandoci dalla tendenza a omogeneizzare queste soggettività: alcune migranti o soggettività razzializzate sono LGBT!) né sovradeterminare le forme di autorganizzazione delle altre. Ad esempio, le retate in strada di migranti non colpiscono i/le bianc* cittadin*, ma anche quest* possono reagire e rifiutare questa pratica, anche se non li opprime direttamente. Un altro esempio può essere visto rispetto agli uomini sul tema della violenza contro le donne: le donne si autorganizzano, ma anche gli uomini possono autorganizzarsi per rifiutare di essere complici e reagire.

Ci sembra inoltre importante ragionare sul fatto che, pur se da posizionamenti differenti, siamo prese dentro gli stessi dispositivi oppressivi, dal quale siamo tutte interpellate nelle nostre specificità. Ad esempio il discorso che costruisce “i migranti” o “i musulmani” come portatori di “arretratezza”, “sessismo” e “omofobia” è un meccanismo che, se da una parte strumentalizza e tende ad addomesticare le nostre lotte antisessiste e contro l’eteronorma, dall’altra serve ad oscurare il fatto che sessismo e eteronormatività sono al cuore della società e non sono “esogene”. In questo senso lo stesso dispositivo razzista ci interpella direttamente pur se non siamo soggetti razzializzati. Ci sembra che da questo posizionamento si possano mettere in campo lotte antirazziste non in mera solidarietà, ma a partire da un punto di vista situato.

Nel caso del burkini l’essere gay friendly è elemento che attesta la modernità e nel Sud può esserci uno spostamento dell’omofobia sul soggetto stigmatizzato come altro islamico arretrato.

Le stesse froce terrone nel migrare riproducono la norma e si mimetizzano o interiorizzano questo senso di arretratezza e attraverso la normalizzazione della terronità passa anche la normalizzazione dell’omosessualità.

Confini, omonazionalismo e spazio pubblico

Nel workshop si è parlato dei confini geografici dei corpi, partendo da tre domande:

1) Quali corpi sono pericolosi e per quali spazi?

Bisogna innanzitutto analizzare cosa intendiamo per spazio. Si può parlare di: confine dello spazio nazionale; spazio urbano e della messa a valore; spazio securitario e del controllo.

Cosa intendiamo per corpi? Egemonici e minoritari. Ad esempio:

  • il corpo della donna in burkini è un corpo minoritario e destabilizza la norma egemonica, come può esserlo quello trans*.

  • il corpo differente dal corpo egemonico che è un pericolo per noi (pericolosità negativa).

  • i corpi differenti su vari assi di classe, sesso, genere, abilità, razza, canoni estetici ma che possono essere assimilabili o ribellarsi, autodeterminandosi e soggettivandosi, assumendo il dispositivo di oppressione per risignificare e sovvertire quest’ultimo.

Ovviamente bisogna tenere presente che gli elementi sovversivi cambiano nel tempo (ad esempio oggi la sottrazione o l’invisibilità del corpo, non più la sua esposizione, è un elemento sovversivo). Sta di fatto che alcuni elementi di visibilità non possono nascondersi, basti pensare al corpo trans o a quello del migrante di colore. Bisogna partire rompendo i dispositivi di potere nella nostra quotidianità, interrogandoci sul privilegio e sull’attraversabilità dei nostri spazi.

2) Chi decide qual è il corpo liberato e le modalità per liberarlo?

La prima risposta che c’è venuta (ironicamente, ma anche no) è: “noi”… però bisogna capire cosa possiamo intendere per libertà e per oppressione.

Non tutti i processi di liberazione sono uguali e molto spesso generano delle contraddizione. Possiamo dire che ogni processo di liberazione è diverso, per esempio alcune donne e femministe musulmane rivendicano il burkini come forma di liberazione. Queste contraddizioni e queste diversità non si devono tradurre in un generico relativismo neoliberale, non si tratta di collocarsi in un polo di una scelta binaria dove o intraprendi un processo di liberazione o rimani oppressa, ma bisogna essere in grado di ascoltare le esigenze che emergono da coloro che stanno lottando per la propria liberazione. Bisogna uscire dalla logica dell’unico modello di liberazione e prendere atto del fatto che non c’è un unico momento di liberazione finale del corpo, ma c’è invece la diversità nella continuità delle lotte situate nel contesto specifico di oppressione. La nostra riflessione sull’islamofobia ha senso dal punto di vista transfemminista queer perché indica le responsabilità dello Stato nell’utilizzo strumentale delle lotte femministe per ri-produrre dispositivi di assoggettamento (repressivo nello specifico). Questo discorso neo-orientalista legittima pratiche coloniali e in quanto tale va respinto a partire dal nostro posizionamento.

3) Come un corpo difforme diventa conforme?

C’è un’interpretazione problematica della domanda: conforme/difforme rispetto a cosa? Sul piano personale, sul piano sociale…? Sono due piani distinti? Probabilmente no: abbiamo tenuto insieme i due piani tenendo conto del rapporto dialettico tra desideri e norme. Come un corpo difforme diventa conforme? Esistono dispositivi che portano a legittimare modelli precedentemente visti come illeciti. Un esempio può essere la medicalizzazione: è normalizzante in alcuni casi, ma attraverso questa normalizzazione ci sono soggett* che possono intraprendere alcuni percorsi di transizione (non potendone immaginare altri). Tra i dispositivi di normazione c’è naturalmente il consumo, il divenire-consumatore/trice/turu. Questi dispositivi non ci esulano, in quanto a volte il discorso contro-assoggettante può diventare esso stesso normativo, quando per esempio si chiede al/la “militante” di “essere all’altezza” del discorso di cui si fa carico a un livello meramente biografico (e vince che lo fa più strano e lo fa più queer).

Pinkwashing, whitewashing, omonazionalismo

Nel workshop si è discusso della normalizzazione del discorso del movimento LGBT mainstream. Siamo partit* dall’esperienza del festival del cinema LGBT di Torino, di recente rinominato “Gay and Lesbian film festival”: a detta degli organizzatori la scelta è stata effettuata per rendere più comprensibile il contenuto e per semplificare la comunicazione (immediatezza del significato di Gay&Lesbian a fronte della complessità di dover spiegare cosa si intendesse con la sigla LGBT). Il festival inoltre ha ottenuto un finanziamento dell’ambasciata israeliana, in linea con le operazioni di pinkwashing da parte di Israele. Infine, quest’anno alla serata di apertura è stato proiettato il film Stonewall, uscito recentemente, noto per le polemiche sulla rimozione o per lo meno la drastica riduzione delle persone trans e nere nei moti di Stonewall.

A partire da questa realtà, l* partecipant* del workshop si sono chiest*: viene prima il pinkwashing o l’omonazionalismo? Quale dei due è il frame che contiene l’altro? Le domande rimangono aperte, ma nella discussione sono emersi alcuni punti:

  • importanza di non porre il problema dell’oppressione palestinese in chiave paternalistica, ma dichiarare che NON SIAMO DISPOST* a farci strumentalizzare. L’interpellazione del pinkwashing chiama in causa direttamente noi soggett* trans femministe queer e ci investe in prima persona, dal momento che è anche su di noi che si esercita l’azione del dispositivo pinkwashing;

  • l’omonormatività ha un funzionamento diverso dal pinkwashing: è un dispositivo soggettivante che genera NORME rispetto alle quali siamo chiamat* ad aderire non per legittimare l’azione di qualcun altro – di uno Stato, di un Governo – ma per legittimare NOI STESS* per essere “adeguat*” a una norma, appunto;

  • osservando il mondo che ci circonda, questi dispositivi procedono parallelamente, non si riesce davvero a individuare una priorità dell’uno sull’altro;

  • caratteristica del whitewashing è la pervasività e l’incorporamento negli altri due dispositivi: il pinkwashing per esempio agisce su un soggetto che si pretende MOLTO sbiancato; il soggetto-modello che viene richiesto dal pinkwashing, non necessariamente realistico, è molto meno medio-orientale di quanto sarebbe in realtà, una ri-produzione di un soggetto “californiano”.

Discussione:

  • in questi giorni alcune persone hanno notato una non-liberazione dai generi: forte predominanza della presa di parola dei maschi cis, anche in contesti in cui erano in minoranza; nessun maschio cis si è segnato al turno di pulizia dei bagni. Proposta di interrogarci sulle dinamiche di privilegio-oppressione dentro la nostra stessa comunità e su come gestire meglio questa situazione. Esigenza di riflettere un po’ su quanto emerso prima di discuterne: a livello di metodo ha senso anzitutto focalizzare sul fatto che non siamo esenti dalle gerarchie di potere, che esistono realmente nel mondo in cui viviamo e che agiscono su di noi nonostante la dicitura “queer” (de-individualizzazzione del queer, fallibilità); in ogni caso è un invito a pensare collettivamente questa cosa, magari prendendoci uno spazio per parlarne nella plenaria di domani sera (02.09.2016), provando nel frattempo a responsabilizzarci collettivamente (p.e. evitando di intervenire trecento volte in assemblea o segnandosi nei turni di pulizia già stasera);

  • è emersa la necessità di decolonizzare il linguaggio che usiamo da una serie di parole patologizzanti (pazzo, schizofrenico, isterica);

  • il linguaggio che utilizziamo nei documenti che rafforza il paradigma “sviluppista”. Dobbiamo riuscire a utilizzare un linguaggio non accademico, ponendosi anche la questione della traduzione, facendo una fanzine multilingue, produrre campagne e immagini alternative, una fanzine curata dal punto di vista estetico artistico può circolare di più e in altri ambiti.

  • Nel dibattito sul burkini è sorta l’idea di fare un’azione in spiaggia evidenziando le imperfezioni (pelo, ciccia etc). Bisogna mettere in evidenza le norme legate all’ingiunzione a svestirsi/svestirsi, ad avere un certo corpo piuttosto che un altro, anche perché la normazione dei corpi non riguarda solo lo spazio pubblico eterosessualizzato, ma anche nello spazio LGBT omonormato con i suoi codici molto precisi.

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