[english version below]
campeggia queer, giovedi’ 30 luglio 2015
L’idea di questo sotto-gruppo del tavolo Lavoro, non lavoro, reddito è quella di iniziare una discussione sul rapporto fra attivismo e lavoro accademico, non solo e non tanto nel senso “classico” di quali regole etiche i/le ricercator* dovrebbero seguire quando fanno ricerca su/con il movimento, ma nel senso di una riflessione più ampia su:
– come la conoscenza che produciamo nel movimento è usata dall’accademia oggi / come la conoscenza prodotta nell’accademia viene usata da noi, se è utile e quanto per noi
– come le soggettività trans-femministe-queer sono messe a lavoro nell’accademia [v. sciopero dai/dei generi]
– le specifiche forme di sfruttamento subite da quell* di noi che lavorano nell’accademia e le possibili forme di resistenza.
Si tratta di un’autoinchiesta sulle condizioni di lavoro e sui rapporti di produzione esistenti nel contesto accademico e della produzione intellettuale.
Questi rapporti di produzione non riguardano solo quell* di noi che sono nell’università (pagat*, non pagat* o paganti – ricercatori/ricercatrici strutturate, non strutturate, studenti). Ci riguardano tutt*, nella misura in cui tutt* partecipiamo alla produzione collettiva di saperi da e nei movimenti sociali: sappiamo bene, infatti, che proprio i saperi e le passioni prodotte nei movimenti sono il motore della messa a valore e dello sfruttamento di quell* di noi che lavorano nell’accademia.Il rapporto fra accademia e attivismo è sempre ambiguo. L’accademia mette a lavoro l’attivismo, spesso lo cannibalizza, ma l’attivismo può sfruttare le risorse dell’accademia: il flusso, ci sembra, non è (quasi) mai in una sola direzione.
La privatizzazione dell’accademia, la censura degli studi di genere e queer, la marginalizzazione e/o l’esotizzazione de* lavoratrici\ori queer nell’università, rendono ancora più ambiguo questo rapporto tra “campo accademico” e “campo militante”. Inoltre, il processo di isitituzionalizzazione dei saperi “minoritari” ha una storia molto diversa in Nord America, Nord/Sud/Est Europa, per non parlare del cd. “Sud del mondo”.
Non intendiamo quindi ascrivere ogni potere e privilegio al primo e ogni fragilità e vulnerabilità al secondo (sopratutto quando questo è il luogo di una qualche forma di” minoranza”), ma piuttosto pensare forme di mutualismo e relazione tra attiviste/ricercatrici che aumentino in ciascun campo le capacità di resistenza e lotta, creando non solo scambi “etici” ma anche sconfinamenti e cortocircuiti.
Di seguito alcuni punti emersi dal confronto informale fra alcun* attivist* del SomMovimento che si sentono particolarmente toccate da questi temi, e che potrebbero essere usati come spunto di discussione.
Come far si’ che l’accademia sia il più possibile al servizio dell’attivismo e non viceversa? Come massimizzare le forme di resistenza all’interno dell’accademia, alla luce della sua crescente precarizzazione?
Come potenziare fra di noi una cultura di non subalternità di fronte alle lusinghe del riconoscimento che l’accademia sembra offrire ai nostri saperi e a noi stesse? E’ possibile/preferibile farlo senza demonizzare o rifiutare l’accademia in toto?
Come possiamo superare la classica concezione che vuole l’attivista associato alla pratica e l’accademic* associato alla teoria? Come mettere meglio in luce le pratiche quotidiane che sostengono la produzione accademica di teoria, e le posizioni teoriche che sono sottese alla pratica quotidiana dell’attivismo?
E’ possibile potenziare forme di produzione e trasmissione del sapere DIY, autogestite e non commerciali, nell’ottica di rafforzare il lato dell’attivismo nelle interconnesioni e nella negoziazione attivismo-accademia?
Che ruolo possono avere pratiche di insegnamento altre, basate su pedagogie performative o radicali?
Come evitare che il fatto di essere attiviste, il fatto di avere un investimento politico nelle cose che studiamo, diventi il motore del nostro lavoro gratuito / autosfruttamento sacrificale in ambito accademico? [cfr. Lavoro non pagato? Basta!]
Come fare a disarticolare i meccanismi di individualizzazione, enclosure e privatizzazione dei saperi collettivi che il dispositivo-accademia produce? (Una forma di resistenza fondamentale per rendere giustizia alla produzione di saperi nei movimenti ma probabilmente anche un passaggio di quelle forme di resistenza alle lusinghe avvelenate dell’ accademia e del lavoro intellettuale in genere, a quella promessa di riconoscimento che è alla base del nostro autosfruttamento)
Data la più o meno permanente mobilità che viene richiesta a molte di noi che lavorano nell’accademia e che rende molto difficile continuare a partecipare alle lotte portate avanti a livello locale dalle nostre reti e collettivi, è possibile dotarsi di strumenti e strategie per contribuire “a distanza”? quali pratiche possiamo mettere a punto per innescare e sostenere processi di traduzione e comunicazione fra diversi contesti e reti? E’ possibile sfuggire alla potenziale “neutralizzazione” indotta dalla mobilità accademica e fare invece di questa una risorsa?
Come resistere all’isolamento, all’individualizzazione, al senso di perenne inadeguatezza, all’intensificazione dei ritmi produttivi lavorando nell’accademia?
Come gestire le collaborazioni senza instaurare involontariamente rapporti di potere (o istaurandone il meno possibile), tenendo conto dei nostri diversi posizionamenti*? Tipo: vi è mai capitato che una compagn* vi aprisse un’opportunità accademica e che questo vi facesse sentire in qualche modo “grate” e/o in dovere di lavorare il più possibile? Vi è mai capitato di collaborarealla pari con persone dedite (più o meno) alla stessa vostra causa politica, e di sentirvi colpevolizzate, direttamente o indirettamente, perchè non lavoravate abbastanza? O comunque di aver lavorato come matte per paura di essere colpevolizzate? Vi è mai capitato di provare fastidio e tensione perchè secondo voi qualcuno non lavorava abbastanza a un libro, a un panel, a un qualsiasi progetto condiviso? Come avete negoziato i diversi livelli di investimento e disponibilità al lavoro? In questa negoziazione che ruolo hanno giocato i diversi posizionamenti*, ambizioni, desideri in ballo nella produzione di ricerca “politicamente impegnata”?
Che fare quando networking accademico e networking militante si mescolano?
Evidentemente, si tratta di compiti che non possono essere affidati solo al senso etico e alle capacità di negoziazione dei/delle singol*: abbiamo bisogno di strategie collettive.
Sappiamo che in questo primo appuntamento non riusciremo ad approfondire che una minima parte di questi punti, e/o degli altri che sicuramente emergeranno, ma dobbiamo pur cominciare.
Vorremmo farlo tenendo sempre insieme l’analisi dei processi di messa a valore e l’immaginazione o il potenziamento di micro-pratiche concrete di resistenza (diffondere istruzioni editoriali per promuovere la citazione estensiva della letteratura grigia di movimento, stilare linee guida, strategie di restituzione, progetto per la produzione dal basso di archivi queer già in corso a Bologna, ecc.)
Ribadiamo che questo non è un gruppo separatista per sole lavoratrici accademiche, è anzi molto importante per la riuscita del gruppo avere una composizione mista, con attivist* che sono lontane dal mondo accademico.
* Nota importante: “I nostri diversi posizionamenti” sono molto più complessi del semplice “dentro” vs. “fuori” dall’accademia o “precaria” vs. “strutturata”: ci sono diversi gradi di probabilità di avere una carriera accademica decente e a quale costo, diversi gradi di sopportazione dei costi (quale è il costo sostenibile per te…), in relazione ai desideri, ai progetti, all’età, allo stato di salute fisica e mentale, alle esperienze passate, alla condizione economica e alla posizione di classe, genere, sessualità, dis\abilità, razza…
Materiali su Lavoro, non lavoro, reddito: Report Lavoro, non lavoro reddito della campeggia 2013; autoinchiesta Pratiche di resistenza dentro conto il lavoro della campeggia 2014; Sciopero dei/dai generi; Lavoro non pagato? Basta!; Un curriculum per Scioperare; Dieci lavori per me posson bastare]
Activism and academia
The idea behind this sub-group of the table on work, non-work, and income is to start a discussion on the relationship between activism and academic work, not only and not just in the “classic” sense of discussing the ethical rules researchers should follow when they do research on/with the movement but also as a more expanded reflection on:
– how the knowledge that we produce in the movement is used by academia today/how the knowledge produced in the academia is used by the movement, if and when it is useful for it
– how trans-feminist-queer subjectivities are put to work in the academy [see gender strike declaration]
– the specific forms of exploitation suffered by those of us who work in academia and the possible forms of resistance
This group will be a self-inquiry [auto-inchiesta] into the working conditions and labour relations of academic knowledge production. The very same knowledge and the passion produced in social movements often fuels the engines of valorization and exploitation of those of us who have academic jobs. As such, the group is not only for those of us who are embedded in academic institutional hierarchies (paid, unpaid, or paying fees/tuition; tenured, non-tenured, or students) but for all of us, since we all collectively produce knowledge from and in social movements. We know very well that the knowledge and the passion produced in social movement fuels the engines of valorization and exploitation of those of us who have academic jobs.
The relationship between academy and activism is always ambiguous. The academy valorizes activism, and often cannibalizes it, but activism can also use the resources of the academy. The flow is (almost) never in one direction.The privatization of the academy, the censorship of gender and queer studies that happens in many universities and funding bodies, the marginalization and/or fetishization of queer scholars, render the relationship between “academic field” and “militant field” even more ambiguous. We need to consider the different histories that the instituzionalization of minoritized and “diverse” knowledges has had in different contexts (e.g. Anglo-America, Northern/Southern/Eastern Europe, to say nothing of “the Global South”).
Therefore, we do not intend to ascribe all power and privilege to academia and every fragility and vulnerability to the social movements (especially when, in the militant field, we find subjectivities that are minoritized in one way or another). Rather, we intend to seek forms of mutualism and relationships that can support resistance and struggle in both fields, creating not only “ethical” exchanges but also trespassing, shortcircuits, contaminations, and fugitive positions.
These are some of the questions that emerged from informal conversation among some activists from SomMovimento NazioAnale. We could use them as a starting point for our discussion.
How can we maximize the benefits of the exchange between academy and activism for social movements? That is, how can we put academia in the service of activism and not vice versa? How can we maximize the forms of resistance within the academy, in the light of its increasing precarization?
How can we collectively strengthen a culture of non-subalternity in the face of the lure of recognition––of our knowledges and our lives––that the academy seems to offer? Is it possible/preferable to do so without rejecting academy altogether?
How can we resist and undermine the simplistic association of activists with practice and academics with theory? How can we bring more attention to the everyday practices that sustain the academic production of theory and the theoretical positions that subtend the everyday life of activism?
How can we enhance forms of production and transmission of DIY, self-managed and non-commodified knowledge, in order to strengthen the side of activism in this negotiation?
How can our teaching along with different, performative or radical pedagogies contribute?
Is the (constant) transformation of the canon still a way of making the difference and counter straight bodies of knowledges?
As activists with politicized research agendas, how can we avoid becoming the engine of our free labor/sacrificial self-exploitation in academia? [see Lavoro non pagato? Basta!]
How can we disarticulate those mechanisms of individualization, enclosure, and privatization of collective knowledges set in motion by the academic “dispositif”? (This form of resistance is fundamental in order to do justice to the production of knowledges in social movements. It is also likely crucial because it would allow us to resist the lures of the academy and of intellectual labour in general, to that “promise of recognition” which lies at the basis of our self-exploitation, and which is harmful for us on many different levels.)
Given the various forms of more or less permanent mobility which is often required of academic workers––forms which make it particularly hard to contribute to struggles carried on locally by our activist networks––how can we devise strategies that can help us contribute from a distance? Or, how can we foster processes of translation and communication between different local contexts and networks of activists? Is it possible to escape the “neutralizing” effects of academic mobility and turn it into a resource or an asset for our activism?
How, working in academia, can we resist the isolation, individualisation, the sense of perpetual inadequacy, and the intensification of the rhythms of production?
How can we collaborate with our comrades/collegues without (or with as little as possible) instituting relations of power or indirecly supporting our own exploitation, also given our different positions*? For example, have you ever been offered an academic opportunity by a comrade and felt “grateful” to her/him in a way that made you feel that you had to work harder? Did you ever collaborate as peers with people “committed” to your same cause (more or less) and get directly or indirectly blamed (or worry about getting blamed) for not working hard enough? How have you negotiated the different levels of investment and availability to work on activist-academic projects? Have these different levels informed how you think about the different positions, ambitions, and desires at work in the production of politicized research?
What is to be done when militant networking and academic networking mix?
Evidently, these are tasks that can not simply hinge on the “ethics” or negotiation skills of each individual, we need collective strategies.
We know that in this first event we’ll address just a fraction of these points, and of the others that will surely emerge, but we have to begin.
We would like to hold together the analysis, imagination, and enhancement of micro-practices of resistance (Dissemination of editorial guidelines to promote extensive citation of gray literature from the movement, guidelines, restitution strategies, queer archives/bottom-up archiving projects, like the one already in progress in Bologna, etc.)
This is not a separatist group only for academic workers. It is indeed very important for the success of the group to have a mixed composition, with activists who are far from the academic field.
* A very important note about “our different positions”: Our positions are much more complex than just inside vs. outside the academy, precarious vs. tenured; there are different degrees of probability of having a decent academic career and at what cost, different degrees of tolerance of the costs (the cost which is sustainable for you…) in relation to desires, projects, age, state of physical and mental health, past experiences, economic status and class position, gender, sexuality, dis\ability, race…
About Work, Non-work and Income: Gender Strike Declaration ; Report Lavoro, non lavoro reddito della campeggia 2013; autoinchiesta Pratiche di resistenza dentro conto il lavoro della campeggia 2014; Lavoro non pagato? Basta!; Un curriculum per Scioperare; Dieci lavori per me posson bastare]